La memoria del tenente Biggio e di una Repubblica che innalzò la bandiera dell’onore

8 Maggio, 2002 | Di | Categoria: MEMORIA

Favoriti e confortati da un clima nel quale regnano le esternazioni contraddittorie, l’incertezza culturale, la vaghezza delle radici, rispuntano gli sciacalli di un tempo, quelli che di volta in volta sembra siano spariti, ma che tacciono solo per riprendere fiato. Quelli che, ad oltre cinquant’anni dai fatti, ancora accecati dal rancore, si cimentano nello sproloquio, si avventurano in disquisizioni di carattere storico intrise di malafede e faziosità, caratterizzate esclusivamente dalla volontà di strumentalizzazione.
La celebrazione, sempre più solitaria ed obsoleta, del 25 aprile ha riproposto anche in Sardegna la figura del partigiano, da sempre rappresentato nell’Isola da Dario Porcheddu. Un nome che ha richiamato alla memoria la recente vicenda della querela, poi archiviata in maniera assai discutibile dal giudice, che gli eredi della medaglia d’oro al valor militare, tenente Giovannino Biggio, avevano proposto contro l’ineffabile Porcheddu. Sarebbe peccaminoso lasciarsi sfuggire questa occasione di riprendere liberamente ed in maniera spregiudicata alcuni argomenti, non tenendo in alcun conto il politically correct che va tanto di moda anche in ambienti al di sopra di ogni sospetto.
Nelle sue esternazioni, il sommo rappresentante dei partigiani sardi, sentendosi indignato dall’intitolazione della biblioteca del Comune di Sant’Antioco al fascista Biggio, si era maldestramente improvvisato storico, peraltro con precario equilibrio e scarsa obiettività, definendolo “traditore della Patria”, «uno che, affianco del nemico terrore del mondo, ne condivideva l’uccisione di vecchi, donne e bambini» e «che si prodigava, con azioni di repressione, contro i lavoratori durante gli scioperi del 1944/’45 inviando decine e decine di operai, uomini e donne, nelle prigioni e nei campi di sterminio».
È triste constatare come il cammino per ristabilire alcune verità sui tragici avvenimenti tra le due guerre sia lungi dall’essere compiuto, ed è triste ammettere come sia stato un atteggiamento troppo messianico sperare che il passaggio della destra dall’opposizione al governo potesse rappresentare una tappa decisiva in questo difficile percorso.
La legittimità della Repubblica Sociale Italiana (che Porcheddu chiama “fantomatica”) come Stato sovrano a pieno titolo con proprio ordinamento, oltre ad essere stata già affermata da dotte valutazioni giuridiche, è stata ampiamente conferita dalla storia e non sarà certo il “resistenzialista” a rimettere in moto il processo storico-giuridico. Furono seicento giorni che videro protagonista una generazione che non si arrese e che decise di innalzare la bandiera dell’onore, pur consapevole di andare incontro ad una sconfitta certa e ad una probabile morte.
Perché dimenticare, se non per un’immarcescibile “fasciofobia”, che fu la R.S.I. – quando la Germania, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, considerava gli Italiani dei vili traditori – ad evitare che il nord Italia fosse messo a ferro e fuoco dagli ex alleati, ad impedire che venissero distrutti gli impianti industriali, le infrastrutture, a scongiurare che si realizzasse una deportazione di massa, a difendere il valore della lira (i Tedeschi avevano già cominciato a far circolare i marchi d’occupazione), al contrario di ciò che accadde al sud, dove l’occupazione alleata determinò l’emissione delle “am-lire” con conseguente crollo del potere della moneta nazionale.
Fu una scelta dettata dall’onore, come volle rimarcare dai microfoni di Radio Monaco, appena liberato dalla prigionia del Gran Sasso, Benito Mussolini, motivando la continuazione della guerra al fianco degli alleati tedeschi sotto le insegne della Repubblica Sociale Italiana: «Solo il sangue può cancellare una pagina così obbrobriosa nella storia della Patria».
È altrettanto falso, come sostiene lo smemorato Porcheddu, che la R.S.I. non venne «mai riconosciuta da nessuna nazione del mondo». Escludendo ovviamente le nazioni con cui la Repubblica Sociale era in guerra, arrivarono i riconoscimenti di Giappone, Bulgaria, Ungheria, Slovacchia, Croazia, Cina Nazionale, Filippine, Thailandia, oltre a contatti diplomatici con Lussemburgo, Olanda, Boemia-Moravia, Belgio e Danimarca.
Ancora scarso fosforo, ma soprattutto presenza di macigni di faziosità, denota l’approccio alla questione delle province italiane annesse alla Germania. Si trattò di un atto unilaterale tedesco del 12 settembre, ovviamente frutto amaro del “voltafaccia badogliano” di quattro giorni prima, perciò accaduto prima della liberazione di Mussolini dal Gran Sasso (18 settembre) e della proclamazione della R.S.I.. La sua breve vita amministrativa fu contrassegnata da forti insistenze da parte dei ministri repubblicani al fine di ottenere la restituzione delle province, ma il tragico evolversi della guerra ne impedì la svolta positiva. Però, nonostante il protettorato tedesco, in quelle zone si insediarono numerosi reparti delle forze armate della R.S.I., tra i quali proprio la X Mas (di cui faceva parte Giovannino Biggio), ai quali il loro comandante Junio Valerio Borghese, durante un discorso pubblico, chiarì che «la consegna è precisa: schierarsi contro la minaccia di qualunque straniero».
A smentire le infamie di Porcheddu arrivano anche le parole del presidente dell’Unione Industriali del Piemonte, il dirigente della Fiat Giancarlo Camerana, nella testimonianza al processo contro Borghese nel 1947: «Avendo la carica di Presidente dell’Unione Industriali del Piemonte, mi dovetti seriamente preoccupare di alcuni inconvenienti e minacce gravi che si profilavano contro l’industria. Da una parte la minaccia germanica di far saltare per aria ogni singola macchina dei nostri stabilimenti in caso di ritirata […], dall’altra parte l’insicurezza delle vie di comunicazione, che rendeva ogni giorno più precario il rifornimento di materiali e viveri per gli operai dei nostri stabilimenti periferici: i numerosi camion che erano adibiti a questi compiti venivano spesso aggrediti e depredati dai banditi […]. Fu per ovviare a queste difficoltà che pensai di rivolgermi al comandante Borghese. Lo conoscevo da anni come persona seria e di massima fiducia; d’altra parte nessuno meglio dei marinai della X Flottiglia Mas, a tutti ben noti per la loro perfetta apoliticità, avrebbe potuto svolgere tali compiti mantenendosi completamente estraneo alla triste guerra civile in corso tra partigiani e fascisti. Nel settembre 1944 ebbi con Borghese un abboccamento all’albergo Principe di Piemonte di Torino […]. Ricordo esattamente la sua risposta: “Salvare un’industria di importanza nazionale come la Fiat è un dovere per noi tutti. Se non sarò comandato, io non farò sparare sui Tedeschi finché siamo alleati; ma quanto a far saltare la Fiat, stia tranquillo che questo lo impediremo con assoluta certezza”. Il comandante Borghese mantenne la promessa […]. Durante tale periodo alcuni uomini della Decima caddero nel compimento del loro lavoro. Fra i marinai e le maestranze della Fiat non avvenne mai il minimo incidente e i rapporti furono cordialissimi. A conclusione posso dire che l’opera svolta da Borghese fu oltremodo utile alla causa nazionale, impedendo di fatto cospicue distruzioni a fabbricati, macchinari e automezzi. Tale prestazione fu fatta per puro spirito nazionale».
Quanto veleno gratuito da chi ancora, nella anacronistica versione “trinariciuta”, nega l’esistenza della guerra civile che funestò l’Italia dal 1943 al 1945, ma anche oltre, visti i numerosi eccidi partigiani a guerra finita. Forse Porcheddu tenterebbe di negare anche l’appello di Togliatti del 31 dicembre 1943 da Radio Mosca («Donne, uomini, giovani, prendete un fucile, andate a raggiungere gli eroici distaccamenti partigiani. Morte ai traditori della Patria») che rappresentò un esplicito invito all’eliminazione fisica dei fascisti.
Il partigiano sardo è perdutamente ancorato alla mistica resistenziale, e tenta, pasticciando giudizi e ricordi qua e là, di raccontare i partigiani come nobili educande protese esclusivamente verso la pace e la libertà. Ed è possibile che sia sempre e solo la memoria a fargli dimenticare alcune tra le più clamorose, e per nulla coraggiose, imprese dei suoi colleghi degli anni quaranta: l’uccisone del filosofo Giovanni Gentile, allora 69enne, del cieco di guerra Carlo Borsani, degli attori Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, la “temeraria” strage di Via Rasella a Roma (prodroma della altrettanto feroce vendetta tedesca alle Fosse Ardeatine), tanto per fare alcuni espliciti esempi.
Sperando che anche in questo caso non intervenga un provvidenziale calo di fosforo, ci incuriosisce sapere cosa il partigiano Porcheddu potrebbe raccontare dell’annessione della Venezia Giulia da parte dei comunisti slavi di Tito oppure degli eccidi che riguardarono migliaia di Italiani, fascisti e non, depositati all’interno delle foibe. Peraltro proprio nella zona dove si racconta che lui abbia combattuto per la libertà.

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