Un tragico evento, quello dell’attentato di Acca Larentia, che ha segnato le vite di una generazione senza trovare mai i veri colpevoli. A distanza di anni, decide di raccontarlo in un film, “Sangue sparso”, la regista Emma Moriconi. Il lungometraggio parte proprio da quel 7 gennaio 1978 ad Acca Larentia e racconta i tragici eventi che hanno segnato un’epoca per giungere fino all’ultimo omicidio degli “anni di piombo”: quello di Paolo Di Nella, nel 1983. Senso dello Stato e della giustizia ma soprattutto volontà di dare voce a dei personaggi caduti nell’oblio dell’opinione pubblica. Al Giornale d’Italia parla l’autrice dell’opera e nostra collega, per spiegare il senso di tale lavoro oggi in un’Italia ormai priva di valori e senso civico.
Un tema delicato, poco “mediatico” e molto politicizzato: come è nata l’idea di girare un film come “Sangue Sparso”?
Quando si parla di “anni di piombo” si pensa immediatamente ad eventi come il caso Moro, emblematico di quell’epoca. Ma i martiri di quei giorni di sangue furono molti, e troppi di essi sono sconosciuti alla maggior parte della gente. Sono quelli che io chiamo “i morti dimenticati dal mondo”. Erano giovani ed innocenti. “Sangue sparso” racconta le storie di quei ragazzi che avevano scelto di fare militanza politica e per questo sono stati assassinati e di quella generazione che ha pagato un prezzo troppo alto in termini di sofferenza.
Gli anni di piombo sembrano essere negli ultimi anni, sia in tv che al cinema, ormai l’elemento jolly, una questione di marketing, più che un periodo storico da snocciolare con cognizione di causa. Cosa pensate al riguardo?
Stiamo parlando di un periodo storico importante e doloroso. Troppo spesso le vicende di quegli anni vengono usate a fini demagogici, quel dolore è diventato in troppi casi una specie di slogan. “Sangue sparso” poteva essere un’operazione di marketing: se avessimo voluto farne questo avremmo scelto di fare un film pieno di effetti speciali e di “grandi nomi”. Invece abbiamo voluto fare un film “semplice”, come semplice era la vita di quei ragazzi che persero la vita in quegli anni.
Quanto tempo è stato impiegato per le riprese del film? Quali, se ci sono state, le difficoltà maggiori?
Abbiamo girato il film in sei settimane, è stato un lavoro durissimo. Abbiamo incontrato immense difficoltà, soprattutto burocratiche. Fare un film oggi, in Italia, non è cosa semplice. Lo sanno bene le produzioni, soprattutto quelle piccole e su questo argomento potrei parlare per ore. Preferisco però ricordare un altro genere di difficoltà: quelle emotive, quella sensazione profonda di dolore nel ricreare quelle situazioni, sapendo che tanti anni prima quei fatti erano accaduti davvero.
Che tipo di ricezione vi aspettate dal pubblico?
Ci aspettiamo che venga compreso il messaggio che il film vuole lanciare: quello del rispetto per la vita umana. Non si può morire a vent’anni con una pallottola nella schiena o con una sprangata in testa. E’ una responsabilità della mia generazione, che è arrivata subito dopo quella, sfortunata, che ha vissuto quegli anni. Lo dobbiamo alla memoria di chi non c’è più, al rispetto dei superstiti, ma anche ai nostri figli.
Quanto amore per la storia sussiste ancora nel cinema di oggi?
Io credo sinceramente che di amore per la storia ce ne sia moltissimo, spesso sono proprio i giovani a volerla riscoprire, anche attraverso il cinema. Bisognerebbe invogliarli e non frapporre troppi ostacoli alla realizzazione della loro creatività. Come dicevo, uno dei mali di questo Paese è la burocrazia.
Dal punto di vista della regia qual è il punto di vista che è stato adottato?
Di “Sangue sparso” ho scritto anche la sceneggiatura, quindi sapevo bene a cosa stavo mettendo mano. Difficile. Difficilissimo. Soprattutto per il mio coinvolgimento emotivo in quelle vicende. Avevo scritto la sceneggiatura parlando con i “sopravvissuti”, guardandoli negli occhi e recependo l’immenso dolore che quelle storie avevano lasciato nel loro cuore. È stata un’esperienza che mi ha toccata profondamente. Ho cercato di riprodurre quelle vicende così come mi sono state raccontate, senza “abbellirle” con romanzesche trame e rocambolesche avventure. È un film, in qualche modo, scarno, essenziale. È un film “vero”, fatto di persone vere. Infatti molti degli attori non sono professionisti.
Quali sono stati i vantaggi/svantaggi di lavorare con un cast fatto in parte di attori non professionisti?
Se hai attori professionisti forse impieghi meno tempo a girare una scena. L’esperienza sul set è sicuramente un fattore che aiuta. Ma non volevo questo, non volevo un film “impostato”. Volevo avere “persone” e non “personaggi”.
Un tassello in più messo per ricostruire la realtà di un’epoca tormentata per l’Italia: cosa credete si possa fare per fare nuovi importanti passi in avanti per fare finalmente chiarezza?
Credo davvero che bisognerebbe superare gli steccati. Ce li portiamo dietro da settant’anni. Credo che ciascuno di noi abbia il diritto di avere le proprie idee e di difenderle con passione, guai se non fosse così. Ed è giusto che ciascuno commemori i suoi martiri, in fondo “Sangue sparso” è anche questo: un ricordo e un piccolo omaggio a quei “morti dimenticati”. Bisognerebbe non chiudere gli occhi, semplicemente. Molti dei ragazzi uccisi in quegli anni non hanno mai avuto giustizia, nessuno ha mai pagato, per esempio, per lo scempio di Acca Larentia, nessuno per Paolo Di Nella, e ne potrei citare a decine di casi di questo tipo. Non è nelle aule di tribunale che, oggi, si può sperare di fare chiarezza, questo mi sembra evidente. Ma il ricordo non deve mancare mai. Ciò che servirebbe, prima di tutto, a mio parere, è cominciare ad assumersi ciascuno le proprie responsabilità. E avere pietà dei morti, anche di quelli altrui, potrebbe essere un inizio. “Sangue sparso” lo fa. È una goccia nell’oceano, ma l’oceano è fatto di gocce.

Francesca Ceccarelli
(da “Il Giornale d’Italia” – 25 maggio 2014)

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