Terminata la lettura di “Chi sparò ad  Acca Larenzia”, scritto da Valerio Cutonilli, il bilancio è terribile: a distanza di 46 anni, gli assassini di Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni sono ancora sconosciuti. Una lettura particolarmente emozionante e, personalmente, un’occasione per ripercorrere quei tragici avvenimenti che hanno avuto un ruolo decisivo nella scelta della mia militanza politica, ma anche per conoscere tanti dettagli nella ricerca della verità.

Un libro da comprare, leggere e diffondere, anche per la meritoria scelta di Valerio: rinunciare interamente ai diritti d’autore, che serviranno per una borsa di studio da assegnare il prossimo 7 gennaio al giovane che vincerà il premio letterario organizzato in memoria di Franco, Francesco e Stefano, ma anche dei tanti altri ragazzi uccisi dalla violenza politica ( per maggiori informazioni: I ragazzi di Acca Larenzia)

Il libro termina con una lettera di Maurizio Lupini, uno dei tre giovani militanti del Fronte della Gioventù che in quella maledetta sera erano nella sezione di Acca Larenzia e miracolosamente sopravvissero alla strage, riuscendo a chiudersi alle spalle il portone blindato. Oltre ai tanti, troppi, misteri della strage dal libro emerge una certezza: gli assassini volevano fare una carneficina.

A Franco, Francesco e Stefano

“C’è chi riesce solo a piangere. guardando il nostro passato. E invece io non posso non sorridere tutte le volte che penso a voi.  Non c’è solo quell’attimo assassino nella nostra vita. La maledizione della nostra storia fa sì che i vostri 18 anni, stupendi nonostante tutto, a distanza di un’epoca rimangano tali. La voglia urlata di vivere e sognare, la pretesa bugiarda che il meglio dovesse ancora venire. L’assurda illusione di poter cambiare il mondo. Con una pennellessa e un secchio di colla! Ci sentivamo quasi immortali. Sbagliavamo? Dipende dai punti di vista.

Franco, avevo provato a trasmetterti il mio entusiasmo per combattere una rivoluzione impossibile. Proprio a te, il più assennato del gruppo. Preciso e curato, con quell’impermeabile bianco che mi torna sempre in mente. Quella forza naturale da sportivo, il fisico tosto ma una disponibilità al dialogo troppo in anticipo con i tempi. Noi ragazzi generosi ma scapestrati e tu sempre con la testa sulle spalle. Non solo studiavi sul serio ma lavoravi in silenzio per pagarti l’università. Tutti vorrebbero un figlio come te.

0ggi ti ricordano come Francesco per non fare confusione, ma per noi anche tu eri Franco. Per me sei un fratello. Sbarazzino, sornione e con un carattere sguaiato come il mio. Quante ne abbiamo combinate insieme. Ti ricordi? Non si possono raccontare tutte perché forse molti non capirebbero. Ma il mio incidente in motorino non l’ho dimenticato perché mi portasti a spalla proprio tu, fino a casa. L’infortunio mi impedì di partecipare al campo-scuola a Borgo Bainsizza e ci rimasi male. Era l’estate del 1977, l’ultima insieme, e quel viaggio l’ho potuto vivere solo attraverso i tuoi racconti. Te ne sarò sempre grato. 

E tu, Stefano, che sei corso subito dai tuoi amici per non lasciarli soli. Ho rivisto tante volte la tua immagine incredula davanti alla sezione. Ti ricordo ancora quei pomeriggi, alla fermata del tram su via Appia. Andavi da Fiamma, croce e delizia dei tuoi sentimenti. È successo proprio a te che avevi la forza di scrivere poesie d’amore mentre per strada c’era la guerra. 

Sono passati 45 anni. Tanti, velocissimi, troppo in fretta per farmene una ragione. Ma la mia vita non si è mai staccata da voi. Non c’è giorno in cui non ripenso al momento in cui ci siamo separati. Ho rischiato di morire altre volte, sapete? Ad esempio per un incidente in moto, durante il servizio militare. Ma nella vita da adulto, durante il lavoro, nella difficile quotidianità di una famiglia con moglie e due figlie, trascino un rimorso che ancora oggi mi attanaglia lo stomaco. Non essere stato in grado di difendervi. Devo convivere con questo pensiero lacerante ma in fondo e giusto così. Non la darò mai vinta a chi continua a predicare odio tra i giovani. È l’unico modo per sentirvi vicini, per tenervi imprigionati nel mio cuore. Ora come allora. Perché avevamo ragione noi a illuderci con quelle frasi che oggi non vanno più di moda. La lotta è bella anche se si muore”.

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