Il ferro va battuto finché è caldo. Anche perché una legislatura può durare massimo cinque anni, il consenso anche meno. Trovarsi a governare senza aver definito un progetto e una strategia, soprattutto dal punto di vista organizzativo, nel settore della cultura rischia di tramutarsi in un’effimera gestione del potere, ricca di soddisfazioni per alcuni singoli, ma difficilmente foriera di effetti, in prospettiva, sulla Comunità nazionale.

Rispolverare parole ‘identitarie’, che identificano un pensiero nazionale e richiamano alla mente l’esistenza di altre visioni del mondo, oltre quella del ‘progressismo globalista’, è già una buona battaglia. Un piccolo segmento di quella famigerata ‘guerra delle parole’, persa da decenni, che ancora costringe un’intera galassia culturale sulla difensiva o addirittura l’ha permeata e condizionata tanto da vederla utilizzare gli stessi registri linguistici. Una ‘destra’ complessata che, vittima, a volte inconsapevole, del ‘tribunale ideologico’, adatta il proprio lessico e subisce parole proibite. Una “neolingua”, come quella tratteggiata da George Orwell in 1984, che “non mira ad altro che a ridurre la gamma dei pensieri”, affinché, una volta entrata nell’uso comune, “qualunque pensiero eretico divenga letteralmente impossibile”. Perché “nel regime orwelliano il potere sulle cose passa per il potere sulle parole e il potere sulle parole genera il potere sulle cose” (Michel Onfray).

Anche se “chi governa è preso dalla realtà e non ha tempo da perdere col pensiero” (Marcello Veneziani), obiettivo della politica dev’essere anche quello di incentivare le occasioni di dibattito, di confronto, di formazione, di elaborazione. Il punto cruciale di questo processo è l’organizzazione, non una banale reductio ad unum bensì una rete plurale, espressione di una galassia diversificata ma con basi valoriali comuni. Una rete che si prefigga anche di superare le individualità, spesso limite di un ambiente autoreferenziale e ricco di solisti (non sempre ‘intonati’), e che possa avviare una molteplicità di occasioni per alimentare quel fiume carsico rappresentato dalla cultura, senza la quale la conquista del potere politico risulta depotenziata o addirittura inutile.

Un problema atavico se, già nel lontano 1980, Marco Tarchi accusava la destra di “agire solo nella sfera politica senza volontà o capacità di incidere sulla formazione di mentalità e valori, che incarnati nel consenso popolare, sono l’indispensabile supporto delle Istituzioni”. Non tenendo in debita considerazione che la ‘società politica’ è minoritaria rispetto alla ‘società civile’, dove si forma e si radica il consenso. Finora, la ‘destra’, privilegiando l’azione all’interno delle Istituzioni, ha trascurato la sua legittimazione valoriale nella comunità nazionale o addirittura, peggio ancora, ha assorbito valori e stili di vita che non le appartengono. In sostanza, “la destra ha creato una classe dominante, ma non una classe dirigente. Non ha saputo creare un tessuto di alleanze sociali cementato da una ideologia e una cultura comune” (Corrado Ocone).

Archiviata la stagione berlusconiana, caratterizzata da altri interessi e dall’incapacità di Alleanza Nazionale di difendere i circuiti virtuosi della propria identità culturale, la storica opportunità offerta dal nuovo corso rilancia il ruolo della metapolitica, come laboratorio strategico prepolitico: agire sul piano culturale attraverso le ‘casematte’ di gramsciana memoria. Veicoli di trasmissione di idee e valori come i media, l’editoria, il cinema, il teatro, la musica, l’arte, i mezzi di espressione più ‘pop’ (per esempio, grafica e fumetto), così da competere finalmente nei meccanismi di creazione del consenso. Non quello effimero elettorale, ma un consenso ideale che porti alla stratificazione dei valori di una visione del mondo alternativa al ‘progressismo globalista’ dilagante.

Siamo al cospetto di una decisiva prova di maturità e di coraggio per una vasta galassia politico-culturale, che non può identificarsi esclusivamente in una classe dirigente partitica, ma che attraverso un ‘comune sentire’ può radicarsi definitivamente nell’intera Nazione. La ghiotta occasione che si presenta al partito politico di maggioranza relativa, erede di una gloriosa e plurale tradizione culturale, non deve ingolosirlo smodatamente, tanto da renderlo intollerante al dissenso e al dibattito oppure tentarlo fino a pretendere di ‘posare il cappello’ sopra ogni iniziativa culturale che dovesse muoversi nei suoi dintorni.

Inevitabilmente, i tempi per raccogliere i risultati dell’eventuale semina sono lunghi, soprattutto in un terreno arido e finora mal seminato, perciò chi ha tempo (gli amministratori centrali, ma anche quelli locali hanno buone opportunità) non aspetti tempo.

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