Non sorprendono le polemiche e le proteste che, da alcuni pulpiti ‘democratici’, si sono levate dopo le recenti inaugurazioni a Cagliari e Capoterra di uno spazio cittadino intitolato a Sergio Ramelli. Un diciottenne militante del Fronte della Gioventù che, il 13 marzo 1975 a Milano, dopo essere stato violentemente perseguitato nella sua scuola, venne aggredito sotto casa, a colpi di chiave inglese (la famigerata Hazet 36), da un commando di estremisti di sinistra (studenti universitari di medicina aderenti ad Avanguardia Operaia) e morì in ospedale dopo 47 giorni di coma. Uno degli episodi più tragici e brutali degli anni in cui la militanza politica era scandita dalla violenza.

La storia di Sergio possiede un forte valore simbolico per tutte le generazioni che si sono impegnate in politica perché fu caratterizzata da militanza, coerenza, fedeltà alle idee e coraggio.
A 49 anni dalla sua morte è ancora un simbolo dell’efferatezza della violenza politica. Ucciso da chi, accecato dall’odio politico, predicava e praticava l’annientamento fisico del ‘nemico’, volendo impedirgli, a qualsiasi costo, l’agibilità politica. Una violenza agevolata da complicità e coperture nei settori importanti della società italiana di allora, nei media e nella scuola, tra i personaggi della cultura, da una parte della magistratura e ovviamente dalla politica. Ricordare Sergio è soprattutto un monito per le giovani generazioni, affinché non ritorni quella terribile stagione di violenza politica, caratterizzata da troppi lutti e troppi dolori.

Per definire meglio il clima di quel tempo aiuta la descrizione dei suoi assassini scritta dai magistrati nella relazione del rinvio a giudizio (furono individuati e condannati quindici anni dopo, grazie alle casuali rivelazioni di alcuni pentiti delle Brigate Rosse): “In difficoltà nell’accettare pienamente il lato buio della loro militanza (in sintesi, l’assenza del principio di tolleranza delle idee altrui, anche se molto diverse), gli imputati, che pur hanno ammesso i fatti, seppure portatori di una cultura medio-alta, persone attente e certamente lettori di quotidiani, dimostrano tuttavia un modestissimo grado di comprensione di quanto accadeva a Milano in quegli anni”.

Questa triste storia è caratterizzata da alcuni episodi che fanno ancora rabbrividire: il suo tema sulle Brigate Rosse che scatenò, nell’ignavia di professori e preside, la reazione violenta dei collettivi di sinistra della sua scuola, fino a costringerlo a cambiare istituto e farlo diventare un simbolo da colpire per dare un segnale; lo sfregio del funerale ‘militarizzato’, arrivato dopo il consiglio della Polizia di ritirare il corpo di Sergio dall’obitorio in serata, cioè di nascosto; l’infame applauso in Consiglio comunale alla notizia del suo decesso; il clima giustificazionista e perdonista creatosi in occasione degli arresti dei suoi assassini e del conseguente processo, che vide protagonisti non più rivoluzionari armati di chiave inglese a caccia di fascisti, ma rispettabili professionisti in giacca e cravatta, improvvisamente pentiti dopo essere stati scoperti e incriminati.

Nessuna sorpresa, perciò, per l’intolleranza che pavlovianamente scatena il nome di Sergio Ramelli, a riprova di una cattiva coscienza ben presente in alcuni ambienti che ancora non accettano il ricordo delle vittime dell’antifascismo militante che caratterizzò pesantemente quegli anni all’insegna dello slogan “uccidere un fascista non reato”. Perché, come recita il titolo del libro sulla vicenda di Sergio, scritto dal giornalista Guido Giraudo, è “una storia che fa ancora paura”.

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