Questa mattina, mamma Anita se ne è andata e ha raggiunto il suo Sergio. Alla vigilia di Natale, la tragedia della famiglia Ramelli si è conclusa nel silenzio di una piccola casa di Città Studi — un quartiere della vecchia periferia milanese — quella stessa casa in cui Sergio è cresciuto, quella casa che Anita non ha mai voluto lasciare. Anita non voleva dimenticare. Per 38 lunghissimi anni, ogni mattina Anita ha aperto le finestre, si è fatta coraggio e ha fissato il marciapiede sottostante. Quel pezzo d’asfalto dove, un maledetto giorno di marzo del 1975, una banda di Avanguardia Operaia massacrò il suo ragazzo. A colpi di chiave inglese, l’HZ 36.

Per 38 lunghissimi anni, ogni 29 aprile Anita attendeva con gli occhi pieni di lacrime i ragazzi del Fronte, gli uomini e le donne del MSI, i camerati di Sergio. Un momento centrale in cui un’intera comunità — indifferente agli strilli dei celerini e gli sguardi schembi dei vicini — si ritrovava nel dolore. Anita, per qualche minuto, restava a guardare dietro le persiane, poi, si faceva forza (quanta forza…) e scendeva a salutare, a ringraziare: “grazie, grazie ma state attenti, ragazzi… state attenti”, ripeteva.

Per 38 lunghissimi anni, Anita ha sopportato l’insopportabile: le scritte “Ramelli vive con i vermi”, il daltonismo della grande stampa, la viltà dei preti ai funerali, i silenzi della magistratura, gli oltraggi alla piccola lapide, persino la brutalità ottusa della polizia che cercava — inutilmente — di impedire ogni ricordo. Allora, per la Milano democratica e antifascista l’assassinio di un diciottenne “fascista” non valeva nemmeno un briciolo di pietà.

In tutto questo tempo Anita non ha mai pronunciato una parola d’odio. Nemmeno nei giorni del processo agli assassini di suo figlio. Fu lei a chiederci, in quel 1986 ormai lontano, compostezza e serietà. Anita non voleva vendette e pene esemplari e rifiutò con sdegno ogni ipotesi di risarcimenti. Chiedeva Giustizia. Soltanto Giustizia. Aveva ragione. Sui nostri volantini riprendemmo il suo appello e ricordammo ad una Milano sbadata e ipocrita che “in quel terribile e meraviglioso ’75 la morte di Sergio diede al Movimento la forza e la rabbia per superare gli anni dell’odio. Oggi è venuto,finalmente, il tempo che il sacrificio di Ramelli diventi un simbolo per l’intera comunità nazionale. Un simbolo di libertà”. Anita se ne è andata. La casa di Città Studi è ormai vuota. Questo Natale, noi tutti — ragazzi invecchiati e giovani “pischelli” — ci sentiamo più soli. Sarà un brutto Natale.

Marco Valle
(“Destra.it” – 24 dicembre 2013)

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